Siamo tutti compagni di viaggio, ma quello di cui vorrei parlarvi quest’oggi lo fu davvero in tutti i sensi. Mi perdonerete quindi se scriverò anche di Franco Fanigliulo a modo mio, ovvero evitando di snocciolare le tante cose che ha fatto, ma unicamente attraverso i miei ricordi.
Mi fu compagno durante l’adolescenza quando, più grande di me di diversi anni, mi affascinava per il suo modo di vivere e di far sognare chi riusciva ad abbandonarsi ai suoi racconti. Lo fu poi, quando lui già affermato, io ormai adulto, condividemmo per molte domeniche uno scomodo vagone ferroviario che da Roma ci riportava nella nostra città.
E allora ricordo una estate degli anni Settanta, forse quella del 1975. Ricordo una collina dalla quale si poteva vedere tutta La Spezia e un gruppo di ragazzi con la chitarra. Giovanni, che sembrava John Lennon , Gianluigi che aveva ancora tutti i capelli, Gabriele che imitava l’idolo del momento che era Bennato e poi Claudio, Giorgia, Concetta, Paolo e altri di cui non so il nome. E poi c’era lui Franco come lo chiamavamo, Gianfranco all’anagrafe.
Ricordo una ragazza tristissima che ci portavamo dietro nella speranza di farle dimenticare un amore finito male e Franco quattordici anni più di me che ad un certo punto comincia ad accompagnarsi con la chitarra, che non era la sua, e a raccontarle, in quel modo che solo lui sapeva fare, una strampalata favoletta, nella quale convivevano splendidamente tra loro cavalli alati e piccoli nanetti tutti con gli occhi azzurri che lavoravano come maschere nei molti cinema della città. La ragazza rideva divertita. Per un momento si era lasciata alle spalle l’angoscia per quell’amore evaporato con il caldo dell’estate. Noi ci guardavamo compiaciuti e ironici pronti a dire a Franco cosa si fosse fumato per inanellare così, una dietro l’altra, tutta quella serie di favolose stronzate senza né capo né coda. Seppi solo molto tempo dopo, che scrivere favole era uno dei suoi sogni segreti. Probabilmente mai realizzato. O forse sì.
Del resto cosa sono molte delle canzoni di Fanigliulo se non favole imprevedibili? Una su tutte, quella che lo rese famoso, anche se purtroppo per poco tempo. Si chiamava “A me mi piace vivere alla grande” con la quale partecipò al Festival di Sanremo. La ricordo bene quella serata. Era il 1979. Eravamo tutti fuori dal Bar Roma, nonostante il freddo pungente di gennaio. Franco apparve annunciato da Annamaria Rizzoli e il Bar improvvisamente si ammutolì, per poi subito ospitare uno dei soliti commenti ahimè tipicamente spezzini stile “mialo lì ma dove i crede d’andae”.
Perché purtroppo Spezia è così: Qui, se riesci a sfondare sei un genio anche se litighi vistosamente con l’italiano, se invece non ce la fai “tei un povero semo ca sa credea d’arrivae chissa dove e i deva tornae a lavorae” .
E così continuiamo a celebrare concittadini illustri, cui frequentare un po’ di più la scuola invece che il partito non avrebbe potuto che giovare e continuiamo a dimenticarci di chi, magari proprio come Fanigliulo, era un genio e avrebbe meritato ben altra carriera. Ma forse, chissà, è così ovunque. Fa parte della insostenibile leggerezza dell’essere, tanto per citare un film proprio di quegli anni.
Franco comunque visse mesi e mesi come una rockstar. La sua canzone era tra le più suonate nelle radio e non era difficile vederlo alla TV, con quel suo fare istrionico un po’ da clown serio cantarla in molte trasmissioni di successo. Poi, come in una favola senza il lieto fine, di quelle cioè che probabilmente a lui non sarebbe mai piaciuto scrivere, il sogno finì. La canzone venne consegnata agli archivi e non è difficile ritrovarla in qualche compilation di successi sanremesi, perché tale fu, ma di Franco non si seppe più nulla. Un paio di album bellissimi quanto sfortunati, nuovi idoli che si affacciavano all’orizzonte. Spezia sempre più lì, pronta a divorarlo, con la sua disincantata routine, invece che a sorreggerlo.
Lavoravo in una radio importante quando lo ritrovai.
Accadde una domenica sera, quando rientravo a casa dopo una settimana di lavoro. Era il 1983 e già da due anni me ne ero andato dalla mia città per poter vivere facendo ciò che più volevo: parlare al microfono, raccontare storie, tra un disco e l’altro. Ero stanco e un po’ contrariato. Mi avevano “appioppato” un programma sportivo domenicale. Allora, al contrario di oggi, il calcio mi piaceva. Quel che mi appassionava meno era però dover trascorrere tutte le domeniche chiuso in uno studio da ottobre a maggio e ancora meno non poter rientrare a casa il venerdì sera. Tuttavia mi avevano concesso libero il lunedì (come i barbieri) e due volte al mese anche il martedì. E così, appena data l’ultima classifica e salutato tutti con la pubblicità di una nota marca di autovetture, trovavo fuori un’auto che mi portava alla stazione dove, se ero fortunato e non era in ritardo, un treno dove a volte faceva troppo caldo, e altre si gelava, mi riportava a casa. Tante ore di viaggio sino a che appunto una domenica a Firenze salì lui. Aveva un cappellone a larghe falde e all’inizio non lo riconobbi neppure. Poi presi coraggio e gli chiesi “Ma sei Franco?”.
Nacque così la seconda parte della nostra frequentazione e amicizia. Questa volta da parte mia più consapevole, perché vissuta ormai fuori dall’adolescenza, in quella fase dell’esistenza umana dove anche quattordici anni di differenza non pesano più di tanto. Mi disse che tutte le domeniche andava a Firenze. Credo avesse là una compagna. Da Pisa in poi, il treno diventava un locale (oggi non esistono più neanche questi) e quindi diventava un’agonia ferroviaria che per lui terminava alla stazione di Vezzano dove in quel periodo abitava. Una sera ricordo che mi invitò e scesi anch’io in quella stazione piccolissima. Casa sua era poco distante. Una casa rurale, vera, genuina come lo era Franco. Passammo la serata, si era già in primavera avanzata a rincorrere i conigli, che gli erano scappati dalla conigliera. Tra moccoli e sghignazzi.
Franco era anche questo. Una persona perbene. Tanto istrionico e irraggiungibile quando ti raccontava le cose che aveva creato, quanto diretto e semplice quando te lo ritrovavi davanti con i problemi di tutti i giorni. La macchina che non parte, il bancomat che ti frega la scheda, i conigli che scappano.
Confidava molto in ciò che stava facendo. Zucchero e Vasco so che lo adoravano. Da poco era uscito un suo Q-disc per la Numero 1, l'etichetta discografica di Battisti e credo che presto o tardi sarebbe diventato lui un numero uno, proprio esattamente rimanendo se stesso. Quel ragazzo che improvvisava favole, quel cantautore che recitava le sue canzoni. La vita, o la morte, che poi sono le due facce della solita medaglia non glielo hanno concesso. Morì esattamente lo stesso giorno in cui, dieci anni prima, era salito sul palcoscenico del Festival.
Questa volta “mialo lì ma dove i crede d’andae” glielo disse la triste signora vestita di nero. Credo che Franco le avrebbe risposto “A te cognosso…tei sempre chi a rompe e bale”.
Domani... Una splendida canzone del mio amico Franco... Ciao...
(Massimo Baldino)
In origine pubblicato qui.
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